Appunti sulla questione dell’Articolo
18
Perché vogliono abolire
l’Articolo 18? Ciò che padroni e CGIL-CISL-UIL non dicono, ovvero il senso
politico dell’attacco all’ultimo baluardo a difesa dei diritti dei lavoratori
Probabilmente qualcuno può
pensare che questa parte stia meglio nella parte finale di questo documento, ma
noi, al contrario, pensiamo che prima di parlare degli aspetti più tecnici della questione che abbiamo
intenzione di affrontare, sia necessario cercare di capire e
spiegare, a noi e ai lavoratori, ai disoccupati ed ai precari, quale è il senso
politico dell’operazione di disarmo dei diritti dei lavoratori, operazione che
passa primariamente per la neutralizzazione dei meccanismi di tutela contenuti
nell’Articolo 18 della Legge 300/1970, meglio conosciuta come Statuto dei
Lavoratori.
Siamo in uno stato di crisi e su
questo non esistono dubbi, e per affrontarla i padroni, appoggiati dai sindacati
di regime, insistono nel sostenere che sia la rigidità del mercato del lavoro (MDL) a non permettere la creazione
di nuovi posti di lavoro e di rimettere in moto la crescita, anche su questo concetto bisognerebbe aprire una
parentesi. Da qui la necessità, secondo loro, di riformare (anzi di controriformare, diciamo noi) il MDL
rendendolo più flessibile.
In cosa consiste questa flessibilità? In pratica bisogna rendere
più flessibili, appunto, le procedure
di entrata e di uscita dei lavoratori dal MDL. Detta così potrebbe sembrare
cosa da poco, ma in realtà ciò significa andare a rimettere in discussione quei
diritti dei lavoratori che erano
(prima della controriforma Fornero) tutelati dall’Articolo 18, cioè le norme
che regolano i licenziamenti.
Lo scopo fondamentale della
controriforma, non è solo quello di privare effettivamente i lavoratori delle
loro ultime tutele, ma anche quella di creare un clima nel quale essi siano
isolati, privi di riferimenti e soprattutto impossibilitati ad organizzarsi per
cercare di ottenere risultati migliori, rendendogli anche praticamente
impossibile l’uso dello sciopero con accorgimenti escogitati dalle OO.SS. di
regime e dalla Confindustria, contenuti nell’’AI del 28 giugno 2011 e
formalizzati in quello sulla rappresentanza sindacale del 31 maggio 2013.
Insomma si vuole creare quella pace sociale necessaria affinché possano essere
realizzate, e fatte passare, tutte le controriforme possibili.
Infatti, ammazzare il conflitto, rendere la classe operaia divisa, è uno
degli obiettivi principali del capitale, perché se i lavoratori raggiungono un
alto livello di coscienza, quindi di combattività, ecco che diventa molto più
difficile, per i padroni, ottenere quelle misure che permettano un aumento dei
loro profitti.
Un altro passo è quello di
dichiarare che solo una minoranza di lavoratori godono di tutele, chiamarli privilegiati, tutelati e accusarli di puntare alla strenua difesa del loro posto
di lavoro (con contratto a tempo indeterminato) visto come un privilegio,
appunto, rendendo quindi impossibile l’ingresso nel MDL dei giovani che restano
così disoccupati e/o precari.
Uno dei nostri compiti è
smascherare questo meccanismo, spiegare, far capire ai lavoratori, ma anche ai
giovani disoccupati e precari, che questa asserzione è una menzogna, che i loro
nemici non sono gli altri lavoratori, quelli a contratto a tempo indeterminato,
ma i padroni, il grande capitale, il cui scopo è di inventare una inesistente
guerra tra poveri per dividere i lavoratori. Del resto divide et impera era il motto che ha permesso ai Romani di tenere
insieme un impero immenso per molti secoli ed è la tecnica che il capitale usa
per dividere i lavoratori e poterli manovrare a suo piacimento. E che loro
nemici non lo sono nemmeno i lavoratori immigrati, rumeni, africani o tedeschi,
ma i capitalisti di quei paesi, l’intero sistema di produzione capitalistico.
Quello che il capitale vuole, è
avere mano libera nelle assunzioni, ma soprattutto nei licenziamenti. È questa
la vera flessibilità come la
intendono loro, in un contesto, tra l’altro, in cui chi viene espulso dal MDL,
ben difficilmente potrà rientrarvi. Questo vale soprattutto per i cinquantenni.
In Italia vi è un autentico esercito di ex-lavoratori appartenenti a questa
fascia di età.
Quindi viene detta una bugia. Non
è vero che il MDL è rigido, i padroni erano liberi di licenziare anche prima
della controriforma Fornero, solo che non lo erano abbastanza (almeno dal loro
punto di vista), non si sentivano sufficientemente liberi di farlo, per questo
chiedono sempre più flessibilità, più
libertà di licenziare.
Da parte loro i sindacati di
regime, agiscono di conserva. Prima dicono che l’Articolo 18 non si può
toccare, perché non sono le modifiche alle regole che favoriscono la crescita, quindi la creazione di nuovi
posti di lavoro. Dall’altra contrattano a ribasso i
diritti dei lavoratori. E siccome nel sistema di produzione capitalistico il
lavoro è una merce, e di questa merce oggi c’è una grande offerta, è chiaro che
per essere acquistata dai padroni deve costare meno (cioè il lavoratore deve
essere pagato meno), o essere più produttiva (cioè il lavoratore deve essere
sfruttato di più).
Quindi, l’abolizione
dell’Articolo 18 inciderebbe molto sulla produttività, e i lavoratori potrebbero diventare soggetti ancor più ricattabili, quindi costretti ad accettare
qualsiasi condizione venga loro posta. L’unico limite che i padroni incontrano
sono i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL), che dettano regole
generali uguali per tutti, ma anche su questo punto i politici ed i sindacati
si cominciano già ad attivare.
Esiste anche un motivo ideologico per abolire l'Articolo 18:
governo e padroni, attraverso la pace sociale che sperano di ottenere con
questo processo, vorrebbero rendere l’Italia un paese più attraente per i
capitali stranieri e vorrebbero che venisse eliminata, dai luoghi di lavoro, ogni
possibilità di conflitto, qualsiasi forma di lotta e di
contestazione su orari, condizioni ed organizzazione del lavoro e diritti. E
tutto in nome di una non meglio identificata crescita, che in realtà va letta come aumento dei profitti attraverso la crescita dello sfruttamento.
Alcune note tecniche
L’istituto del licenziamento in
Italia, è disciplinato dagli articoli 2118 e 2119 del Codice Civile e dalla
Legge 604/1966, mentre la Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), ne regola le
conseguenze in caso di illegittimità del licenziamento in aziende con più di 15
dipendenti.
La Legge 604/1966, sancisce che
il diritto di licenziamento da parte del datore di lavoro, può essere
esercitata solo nei limiti e modalità molto precisi, sia sotto l’aspetto de
motivi del recesso sia sotto quello della procedura da seguire.
L’Articolo 18 dello Statuto dei
Lavoratori prima della controriforma attuata dal governo Monti, regolava, nelle
aziende con più di 15 dipendenti, il
reintegro sul posto di lavoro nel caso di licenziamento illegittimo, cioè
in assenza di comunicazione dei motivi o per discriminazione. Se veniva
appurato che un lavoratore era stato licenziato senza giusta causa, l’articolo disponeva il suo reintegro nel posto
di lavoro con il recupero delle mensilità perse, cioè dei soldi che avrebbe
riscosso se non fosse stato licenziato.
Vediamo le varie tipologie di
licenziamento:
· Licenziamento per giusta causa: riguarda
i licenziamenti per motivi disciplinari ed è un concetto utilizzato
nell’articolo 2119 del C.C., in riferimento ad
un atto talmente grave da non consentire (nemmeno in via provvisoria) la
prosecuzione del rapporto di lavoro, in cui il fondamento del potere di
recesso di questa clausola viene ricondotto alla natura fiduciaria del rapporto
di lavoro (insubordinazione, assenteismo, lavoro per conto terzi durante la
malattia, furto di beni aziendali, eccetera). In alternativa al reintegro, il
lavoratore può scegliere un risarcimento pari alle mensilità perse più un
indennizzo di 15 mesi. Questa misura fu studiata per impedire il rientro del
lavoratore in un ambiente lavorativo ostile.
Dopo la controriforma Fornero: i
requisiti rimangono gli stessi, ma se vengono a mancare, e quindi il
licenziamento è illegittimo, invece
del reintegro il datore di lavoro è obbligato ad un risarcimento dai 15 ai 24
mesi. Se il dipendente non ha commesso il fatto, il giudice può
disporre il suo reintegro e un’indennità pari alla retribuzione dovuta dal
momento del licenziamento.
· Licenziamento per giustificato motivo
soggettivo: come nel caso della giusta causa, riguarda i licenziamenti
disciplinari, ossia condotte meno gravi ma che rendono difficile la
prosecuzione del rapporto di lavoro (per esempio violazioni disciplinari). Se
per il giudice dichiarava l’illegittimità
del provvedimento, ordinava il reintegro
del lavoratore nel suo posto di lavoro.
· Licenziamento per giustificato motivo
oggettivo: in questo caso il licenziamento può non dipendere dalla condotta
del lavoratore, ma da ragioni inerenti
l’attività produttiva (chiusura, ristrutturazione, outsourcing
dell’attività, eccetera). Anche in questo caso l’insussistenza dei requisiti,
faceva scattare il reintegro.
Dopo la controriforma Fornero: anche
in questo caso il giudice disporrà un indennizzo pari a 15-24 mensilità, ma se
rileva la manifesta insussistenza del fatto, può disporre il reintegro
(camuffamento del licenziamento con ragioni economiche, o di altra natura).
Licenziamento discriminatorio: questo
tipo di licenziamento era dovuto o ad attività sindacale, partecipazione ad uno
sciopero, oppure per motivi politici, religiosi, razziali o di sesso. Anche in
questo caso era prevista la riassunzione con un risarcimento minimo di 5
mensilità ed il pagamento dei contributi arretrati.
Dopo la controriforma Fornero: la
disciplina rimane la stessa, ma in più il dipendente può richiedere 15
mensilità di indennizzo in luogo del reintegro.
Quanti lavoratori tutela l’Articolo
18?
Al momento copre il 65,5% dei
lavoratori dipendenti, ovvero su quasi 12 milioni di operai ed impiegati, 7,8
milioni ne beneficiano, ma è poco se si pensa che altri milioni di lavoratori –
giovani ed immigrati – non ne beneficiano. Questa è una misura importante che
dovrebbe essere estesa a coloro che non ce l’hanno.
La Legge 604/1966 prevede il licenziamento per motivi
economici (crisi, acquisto di macchinari che non abbisognano dello stesso
numero di lavoratori), che però deve essere dimostrato dal datore di lavoro. Ciononostante i padroni
sostengono che non possono assumere per una presunta rigidità delle regole, ossia che non hanno libertà di
licenziamento. In realtà questa libertà l’hanno sempre avuta.
Gennaio 2014.
Areaglobale
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